Fare storia della Resistenza

A proposito di un volume di Santo Peli

Mercoledì 5 aprile si è tenuta l’iniziativa “Fare storia della Resistenza”, promossa dalla Biblioteca Franco Serantini in collaborazione con il Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa, nella quale è stato presentato il libro La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni di Santo Peli (BFS, 2022). La natura stessa dell’opera, che racchiude saggi e contributi su riviste scritti tra il 2010 e il 2021 dallo storico ed ex docente di storia contemporanea dell’Università di Padova, ha offerto un’importante opportunità di confronto su molteplici nodi storiografici relativi alla storia della Resistenza. Ci eravamo già soffermati più volte del contributo di Peli alla storia della Resistenza nelle sue varie forme: inaugurando nel 2020 il nostro canale YouTube e pubblicando due resoconti di come, quando e quanto la rivista «Passato e presente» si è occupata di Resistenza (qui e qui).

Di fronte a una corposa platea, formata sia da addetti ai lavori di differenti generazioni che da persone sensibili ai temi discussi, si sono snodati gli interventi dei due relatori – Stefano Gallo (ricercatore ISMED CNR e direttore BFS) e Gianluca Fulvetti (Università di Pisa) – lasciando successivamente la parola all’autore, che ha argomentato i temi sollevati durante l’incontro e risposto alle domande del pubblico. Il presidente della Serantini Franco Bertolucci ha aperto l’incontro introducendo alcuni dei punti cardine dell’opera storiografica di Peli.

Gallo ha posto l’accento sul senso del volume, inteso come necessità di sistematizzare e rendere fruibile a un pubblico più vasto le ricerche di colui che ha definito come «il più importante studioso della Resistenza». Fra i meriti di Peli vi è quello di aver fornito un affresco della vicenda partigiana in grado di restituire tutta la complessità e ricchezza di quell’esperienza storica, epurandola da incrostazioni mitizzanti e/o agiografiche. Allo stesso tempo, di aver costituito un argine ancora più robusto alle tendenze di revisionismo “di destra” che animano una parte del dibattito pubblico.

Un insegnamento prezioso, dunque, va ricercato nel contributo dato dall’autore, nel solco della lezione di Claudio Pavone, al superamento dialettico di due scuole storiografiche che hanno goduto per anni di buona fortuna. Da un lato, quella epopeica della storiografia del primo ventennio post-bellico, che era stata guidata per ovvie ragioni da coloro che avevano vissuto in prima persona quel periodo storico. Dall’altro quella maturata dentro gli anni di forte mobilitazione a ridosso e oltre il “lungo ’68”, nella quale ebbe una forte influenza il mito della “Resistenza tradita”.

Da queste considerazioni prendono le mosse i tre interrogativi rivolti da Gallo all’autore: a) le differenze metodologiche riscontrabili soprattutto nell’uso frequente da parte di Pavone della letteratura teorico-epistemologica; b) il ruolo avuto dal PCI tanto nell’organizzazione politica e militare della guerra di liberazione quanto nella costruzione del mito resistenziale; c) le interpretazioni che sono state formulate a partire dal discorso d’insediamento come presidente della Camera dei deputati da Luciano Violante nel 1996 e dai libri di Gianpaolo Pansa, fino alle recenti dichiarazioni sull’azione gappista di via Rasella, pronunciate dall’attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa. Infine, all’autore è stata chiesta anche la propria posizione nei confronti di quelle ricostruzioni che hanno alimentato la categoria di “Resistenza tradita”.

Peli si è definito uno studioso molto più attento alla ricerca sulle fonti primarie e sulla letteratura secondaria, piuttosto che un frequentatore assiduo delle disquisizioni teoriche; come modello di “fare storia” misurandosi principalmente con la prassi empirica, ha ricordato l’esempio delle interviste condotte da Nuto Revelli agli ex partigiani per Il Mondo dei vinti (Einaudi 1977), senza che quest’ultimo avesse alcuna competenza nel campo della storia orale.

Questo tipo d’impostazione lo ha portato a considerare il PCI meno monolitico di come di solito sia stato presentato, spesso anche dagli stessi detrattori, proprio perché aveva dispiegato la propria azione politica all’interno di una vicenda storica estremamente complessa ed eccezionale; erano stati un «manipolo di 3-4000 militanti costretti ad agire in clandestinità», sotto il fascismo e dentro la temperie della seconda guerra mondiale, molti dei quali avevano vissuto buona parte della loro vita politica in esilio o in prigionia, a formare il gruppo dirigente di migliaia di guerriglieri che, al contrario, possedevano tutt’altro bagaglio politico e culturale alle proprie spalle. Bande partigiane nelle quali si è sperimentata una straordinaria integrazione di individui accomunati principalmente dalla necessità di far parte di un’azione collettiva: tale fenomeno, a sua volta, contribuì a sfaldare in maniera integrale, seppur tra contraddizioni, le differenze di classe nelle azioni quotidiane della vita partigiana, in un torno ristrettissimo di tempo. Gli studenti e gli intellettuali in generale – racconta Peli – saliti in montagna nei giorni di grande afflusso della primavera-estate del 1944, oppure nelle fasi successive, si ritrovarono davanti a comunità combattenti che condividevano armi, socialità e morti, formate da militanti politici di vecchio corso, militari di leva sbandati o aggregati politicamente, giovani montanari e proletari di varia provenienza. Grazie a questa interazione si è potuto sviluppare quel processo di politicizzazione di massa represso da vent’anni di regime fascista, che la storiografia ha evidenziato come un tratto peculiare della guerra partigiana.

Peli ha ricordato di non sentirsi a suo agio con l’idea di una Resistenza “tradita” e, men che meno, di una Resistenza “sovradimensionata” e monumentale. Nella lettura degli eventi, tuttavia, non possono essere oscurate le ragioni di chi ha intravisto un “tradimento” degli ideali che guidarono la lotta al nazi-fascismo. Le spinte di radicale cambiamento messe in moto in quel breve e intenso periodo si dimostrarono difficilmente normalizzabili, soprattutto se le aspirazioni sociali, politiche e culturali più avanzate espresse nella guerra partigiana si confrontano con le conquiste poi concretamente ottenute. Per quale mondo avevano combattuto i partigiani? E con accenno ai revisionismi di destra: «per quale “patria” si erano battuti» in una Guerra civile? I partigiani cantavano “la mia patria è il mondo intero”, i loro avversari cosa cantavano?

È dentro tale contesto, o uno simile, che va collocata qualsiasi valutazione sugli eventi del 1943-1945.

Per Fulvetti le polemiche revisioniste sulla Resistenza sono databili già negli anni a ridosso della Liberazione, testimoniate da una lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1955 di Nuto Revelli del decennio successivo, riportato nel volume di Peli e citato in sala da entrambi i relatori:

A volte, leggendo i libri partigiani, quasi mi lasciavo cogliere da un senso di smarrimento: madonna santa, ma che partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di mangiare non parlavano mai, che ammazzavano i tedeschi in centinaia e sparavano sempre fino all’ultima cartuccia. Possibile che soltanto per noi, piccoli partigianelli di G.L. del cuneese, esistessero un’infinità di problemi – il sacco, le scarpe, la farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie? Che il nostro fosse soltanto un piccolo partigianato? Da quando però ho ripreso a girare e rigirare i miei mucchi di scartoffie mi sono accorto che il nostro “piccolo partigianato” è quello vero, proprio perché dice che i tedeschi li ammazzavamo soltanto a decine e non a centinaia, non parlavamo mai di strategia ma soltanto di tattica, e sovente i problemi logistici erano più impegnativi dei problemi militari. Non piantavamo le bandiere sulle torri né trovavamo il tempo per le “ore politiche”: alcuni di noi scappavano in combattimento, altri si facevano scannare piuttosto che mollare. Politicamente chi ne capiva di più e chi di meno: chi era salito in montagna per rischiare la pelle, chi per salvarla. Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa – mille tipi con mille idee – che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune con pregi e difetti, non un esercito di santi (p. 125).

Il fatto stesso che Revelli sentisse la necessità di scrivere queste puntualizzazioni a soli dieci anni dal 1945 evidenzia le difficoltà nello storicizzare l’esperienza resistenziale, per sua natura piena di contraddizioni e aporie, caratterizzata da inevitabili approssimazioni ed errori. Un’esperienza fatta da giovani uomini e donne – non appunto da «santi» – che presero la via della lotta armata guidati dalla necessità, dal caso e non solo dall’utopia e che, in quegli anni in montagna, provarono empiricamente un modo di stare al mondo difficilmente replicabile in altri contesti. Considerazioni di questo genere andrebbero tenute ben presenti, allora, anche quando si volge lo sguardo al rapporto, variabile e mai univoco, con le popolazioni autoctone dei territori in cui si sviluppò la guerra partigiana; quando si tirano le somme circa quell’esperimento di autogoverno popolare delle “zone libere”; quando si tenta di ricostruire il significato della Resistenza per coloro che, la maggioranza, ne rimasero fuori.

Le cause dell’annosa discussione attorno al portato storico della vicenda partigiana vanno rintracciate in quella unicità e potenza simbolico-politica, che Peli ha saputo ricostruire nella sua produzione. Unicità che risiede soprattutto nella scelta di centinaia di migliaia di uomini e donne dell’opposizione militare al fascismo e a favore della fine della guerra. La decostruzione del mito, la restituzione della dimensione umana e della sfera dei sentimenti che sta dietro alle imprese dei combattenti e alle loro scelte di vita, oltre a essere una delle più importanti lezioni che si possono trarre dalle ricerche di Peli, indica la via per «continuare ancora a studiare la guerra partigiana e per studiarla meglio». Una storia che impone «la forma del condizionale e mai dell’indicativo», che ricerca la complessità e rifugge dalle comode approssimazioni. La chiave di lettura utile a sondare un fenomeno così variegato, animato da culture e sensibilità differenti, sviluppatosi in condizioni geografiche e sociali eterogenee, dove i confini tra organizzazione formale e informale, spontanea o verticistica della lotta sono assai labili, è per forza di cose quella dell’approccio “micro”, poiché solo ricomponendo il mosaico di queste peculiarità è possibile fare storia della Resistenza. Esplicito, in tal senso, l’invito di Fulvetti ad approfondire lo studio delle “zone libere”, proprio nel solco tracciato dalle ricerche condotte da Peli.

Nelle battute finali dell’iniziativa, dalla platea è arrivata una domanda circa le modalità con le quali poter raccontare la storia della Resistenza nelle scuole superiori e, più in generale, all’interno del dibattito pubblico, senza perdere le problematizzazioni dei processi storici che, al contrario, l’opera storiografica di Peli ha avuto il merito di porre in evidenza come ineludibile.

Il Santo Peli di Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, 2014) – che con rigore archivistico e profondità di analisi aveva “umanizzato” il mito nato attorno alla morte del partigiano Dante Di Nanni decostruendolo, e assegnando finalmente il giusto peso e valore a tutta la storia del gappismo – non è sicuro di avere una risposta esauriente alla domanda. Raggiungere una sintesi soddisfacente tra le complessità delle vicende storiche e la necessità di semplificazione propria della divulgazione, e della public history, è per Peli una sfida talmente ardua da renderla quasi impossibile.

Il “mito”, in fin dei conti, così come ha funzionato per sostenere e ampliare il movimento di liberazione all’epoca dei fatti, può funzionare ancora oggi come attivatore di curiosità verso la storia della Resistenza: l’importante è riuscire a inserire il mito in un percorso progressivo di problematizzazione e di stimolo alla profondità d’indagine per comprendere gli eventi storici. Come ha ribadito l’autore, tuttavia, un lavoro divulgativo di questo genere travalica le possibilità del singolo ricercatore, poiché esige l’impiego di differenti figure professionali e specifiche strutture d’intervento idonee per ognuna delle fasi del percorso che si vuole seguire, e degli uditori con i quali ci si confronta (se una scuola media, o un istituto superiore, o una platea differenziata, ecc.).

Nicola Mariotti
Università di Pisa

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