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Il senso delle “150 ore”: cinquant’anni fa, oggi

Una riflessione per i 50 anni del diritto allo studio retribuito dei lavoratori, le cosiddette “150 ore”

Cinquant’anni dopo

Nel 2023 ricorrono i cinquant’anni dell’acquisizione del diritto allo studio retribuito da parte dei lavoratori, passato alla storia come “150 ore”. Quel passaggio decisivo degli anni ’70, conflittuale e imposto ai datori di lavoro dal sindacato unitario dei metalmeccanici, in Italia ha aperto la strada all’effettiva implementazione delle politiche di educazione degli adulti e dell’educazione permanente su cui stavano cominciando a impegnarsi negli stessi anni gli enti locali sotto l’egida autonomistica delle nuove istituzioni regionali.

Rispetto all’individualizzazione performativa, più che formativa, attualmente presente nelle logiche educative neoliberali (non solo nel lavoro …), le “150 ore” hanno cercato invece di costruire e organizzare integrazione fra bisogni individuali, solidarietà di classe e interessi generali. Le “150 ore” furono una gigantesca operazione di recupero di tempo per sé, dedicata alla formazione della personalità: un tassello di quel proiettivo “rimuovere gli ostacoli” dell’art. 3 della Costituzione repubblicana, sperimentato e vissuto dal basso e che era alla base delle aspirazioni degli anni ’70 per un effettivo Welfare orientato al decentramento istituzionale e sociale, su cui si sperimentavano i movimenti collettivi affermando nuove soggettività. Il limite inevitabile delle “150 ore” è stato quello di essere un’intuizione figlia della crisi di legittimità e efficienza esplosa nel modello taylor-fordista delle società industriali mature novecentesche e dei paesi sviluppati, proprio quando iniziava la loro “grande trasformazione” di fine secolo: e per di più, restando sempre e solo come istituto contrattuale senza tutela normativa, di essere condizionato dalla crisi delle relazioni industriali e di lavoro che la fine dell’unità sindacale si sarebbe portata dietro dalla metà degli anni ’80 in poi.

Cosa sono state le “150 ore”

Le massicce e diffuse lotte operaie della fine degli anni ’60 del ‘900, passate alla storia in Italia come “autunno caldo” del 1969, portarono all’approvazione nel 1970 del cosiddetto Statuto dei diritti dei lavoratori (L. 300 del 1970, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”). Il ciclo conflittuale successivo che va fino ai risultati ottenuti nei grandi contratti collettivi dell’industria nel 1972-74, è caratterizzato da alcuni elementi che modificarono e modernizzarono alla base il sistema di relazioni industriali italiano del lungo secondo dopoguerra: un forte decentramento delle relazioni sindacali e della negoziazione integrativa rispetto a quella nazionale; la legittimazione della presenza sindacale in azienda; l’affermazione della centralità dei luoghi di lavoro per l’azione sindacale; lo sviluppo del movimento dei consigli di fabbrica come nuova forma di rappresentanza dei lavoratori a carattere universale e come espressione dell’unità sindacale (sindacato dei consigli); l’emersione di modalità e forme nuove e partecipate per affrontare e delineare i contenuti negoziali (salute e sicurezza, ambiente di lavoro, organizzazione del lavoro, classificazione del lavoro e sua valorizzazione, egualitarismo salariale, formazione, informazione, ecc.).

Fra questi nuovi contenuti negoziali tradottisi poi in risultati contrattuali, specificatamente garantiti dallo Statuto, nella primavera 1973 i lavoratori metalmeccanici e metallurgici ottennero, per primi e per la prima volta in Italia, le cosiddette “150 ore” per il diritto allo studio retribuito dal datore di lavoro, collegate alle nuove forme di classificazione del lavoro conquistate nello stesso contratto e alla parità normativa operai-impiegati (inquadramento unico). Fra il 1973 e il 1974 anche i lavoratori dei vari comparti tessili e chimici acquisirono questi istituti che vennero poi via via diffusi agli altri settori produttivi, ai servizi e infine alla pubblica amministrazione. Questo passaggio, per l’Italia, aprirà la stagione delle politiche di lifelong learning da parte sia delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi sia delle istituzioni nazionali e locali, centrandole direttamente nell’esperienza lavorativa. Il monte ore contrattuale di permessi (del tutto o in parte retribuiti) per il diritto allo studio era variabile a seconda dei settori (mediamente 150-120 ore nei principali accordi); prevedeva la concessione da parte del datore di lavoro di permessi-studio da utilizzare durante l’orario lavorativo; poteva essere spalmato su due o tre anni oppure utilizzato in forma concentrata solo in un anno.

Le “150 ore”, almeno fino agli anni ’90, non potevano essere utilizzate per corsi di aggiornamento o professionalizzanti a fini aziendali, ma per il rafforzamento della cultura generale e solo in agenzie formative pubbliche, in primis la scuola e l’università. La scelta dei corsi “150 ore” – nella fase alta della “parabola” dell’unità sindacale (dai primi anni ’70 ai primi anni ’80) – era nella libera disponibilità dei singoli lavoratori ma veniva programmata e gestita dalle rappresentanze consiliari di base, aziendali o territoriali, in accordo con imprese e amministrazioni e con l’appoggio e il sostegno delle associazioni sindacali federali e confederali. All’inizio degli anni ’90, entrata ormai definitivamente in crisi l’unità sindacale e cambiato radicalmente il quadro delle relazioni industriali, le “150 ore” verranno assorbite all’interno dell’attività dei Centri territoriali per l’educazione permanente su base provinciale, oggi Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, e cominceranno a sviluppare una più accentuata dimensione direttamente professionalizzante, sempre all’interno dell’offerta formativa pubblica. L’istituto è tutt’oggi esistente come risultato contrattuale, senza nessun rafforzamento normativo, anche se ha perso il significato di mobilitazione culturale e formativa collettiva delle origini in favore di un uso meramente individuale e strumentale, sempre più frammentato e condizionato, e in cui il sindacato raramente riesce a giocare un ruolo.

I corsi delle “150 ore” negli anni ’70-’80 erano di tre tipi: corsi per il recupero dell’obbligo d’istruzione, previsto fin dal 1923 a 14 anni ma largamente disatteso (al 1969, milioni di lavoratori manuali italiani, in particolare i quattro quinti degli operai industriali e la quasi totalità di quelli agricoli, non avevano adempiuto all’obbligo e soprattutto nelle classi di età più anziane neppure possedevano la licenza elementare); corsi per la scuola secondaria superiore; seminari universitari. Queste ultime due tipologie, negli anni ’70-primi ’80, erano state utilizzate diffusamente dalle organizzazioni sindacali e dalle rappresentanze consiliari per la formazione di delegati aziendali e quadri intermedi, in particolare sulle tematiche connesse all’organizzazione del lavoro, della salute e sicurezza e della prevenzione. Contestualmente all’affermazione di un “femminismo sindacale” già nella seconda metà degli anni ’70 le “150 ore” si collegheranno massicciamente alla nascita dei Coordinamenti donne delle organizzazioni sindacali, innovando le politiche unitarie e le rappresentanze attorno alle differenze di genere.

Ai corsi delle “150 ore” per il recupero dell’obbligo d’istruzione, fra il 1974 e il 1985, parteciparono oltre un milione di lavoratori e lavoratrici dipendenti, prevalentemente manuali ed esecutivi: come ebbe a ricordare retrospettivamente Bruno Trentin, furono un vero e proprio movimento auto-educativo di massa. Con la crisi dell’unità sindacale l’intensità diminuirà, anche se ancora quasi trecentomila corsisti si registrarono fino alla fine decennio. Successivamente, negli anni ’90, le quote di frequentanti si stabilizzarono al ribasso sulla cifra media di quaranta-cinquantamila annui, anche grazie alla progressione della scolarizzazione di massa prolungata fra le nuove generazioni di lavoratori. Già dai tardi anni ’70 e con evidenza maggiore negli anni ’80-’90, le “150 ore” tesero ad uscire dal circuito del lavoro dipendente per aprirsi prima alle donne casalinghe o inoccupate, poi alle aree di disagio sociale giovanile e del precariato e poi agli immigrati.

Cosa resta

A differenza delle precedenti esperienze di educazione degli adulti e di recupero dell’obbligo scolastico sviluppatesi fra fine ‘800 e ‘900, tutte esterne ai contesti lavorativi e declinate dall’uso del tempo libero serale o festivo dei lavoratori, le “150 ore” nascono dentro il lavoro industriale: è la scuola che arriva ai lavoratori durante il lavoro, non sono i lavoratori che recuperano la scuola dopo il lavoro. Le “150 ore” inoltre sono collegate all’idea di trasformare l’organizzazione aziendale delle imprese attraverso la formazione autonoma e la crescita individuale, valorizzando la soggettività e il ruolo del lavoratore attraverso l’acquisizione di competenze legate all’elevamento della cultura generale personale e alla consapevolezza collettiva. Le “150 ore” sono strettamente collegate all’inquadramento unico e alle nuove forme di classificazione che restituiscono dinamiche di mobilità professionale orizzontale (funzionale di ruolo) e verticale (gerarchica di ruolo e di status) all’organizzazione industriale e amministrativa, attenuando le tradizionali distanze fra lavoratori manuali e non manuali. In questo senso, il mutamento dell’impresa flessibile e l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, fra anni ’80 e ’90, riusciranno a rispondere a questa idea trasformativa della valorizzazione soggettiva nel lavoro, ma spostandola fuori dal perimetro taylor-fordista in cui questi istituti contrattuali erano nati nella proposta sindacale e per il cui superamento avevano operato.

Non a caso “150 ore” e inquadramento unico sono ancora presenti nei contratti collettivi nazionali e in quelli integrativi decentrati. Il passaggio decisivo che ne ha modificato il senso, sta però nel recupero di controllo e mediazione delle traiettorie formative e professionali individuali operato dall’impresa, anche se l’inquadramento unico resta ancorato alla negoziazione fra le parti. In questo modo la formazione, a differenza degli anni ’70, si è sganciata sempre più dal tema dell’organizzazione produttiva come elemento di conoscenza generale e non solo operativa. È tornata ad essere questione vocazionale personale, del singolo. A maggior ragione questo si conferma là dove constatiamo che oggi l’uso più significativo e diffuso di questo istituto si realizza nei percorsi di integrazione strutturati attorno all’educazione permanente, ma di nuovo in modalità esterna rispetto ai contesti di lavoro. Si assiste ad un paradosso: nella formazione e istruzione professionali di base (e nella scuola secondaria in generale) si diffondono gli stage gratuiti, mentre il diritto allo studio retribuito diventa questione privata.

Questo articolo esce contemporaneamente anche nella rubrica “Al presente” della pagina web della Società Italiana di Storia del Lavoro.

Bibliografia

Aris Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna, il Mulino, 1992.

Pietro Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, in “Italia contemporanea”, 2015, n. 278, pp. 224-246.

Monica Dati, Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo. L’esperienza delle 150 ore, Roma, Aracne, 2022.

Francesco Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale, Roma, Edizioni Lavoro, 20232.

Lucio Libertini, Tecnici, impiegati, classe operaia: inquadramento unico e 150 ore, Roma, Editori Riuniti, 1973.

Pietro Causarano

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