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Palestinesi, tra emigrazioni e immigrazioni

Sullo sfondo della tragedia epocale in corso, la tesi secondo cui il popolo palestinese sarebbe in larga parte composto da “immigrati recenti” è tornata ad essere proposta da alcuni studiosi. Cosa ci dicono le fonti e la Storia.

Il primo censimento ufficiale della popolazione presente in Palestina venne effettuato dal governo mandatario britannico. Venne rilevata una popolazione totale di 757.182 individui, di cui 590.390 musulmani, 83.694 ebrei (compresi i membri del “vecchio Yishuv”, l’antica comunità ebraica locale), 73,024 cristiani (la quasi totalità dei quali palestinesi di fede cristiana). Le precedenti rilevazioni presentavano evidenti difficoltà. Le autorità ottomane erano solite conteggiare, per fini legati alle tasse e al servizio militare, quasi esclusivamente i maschi adulti o i capifamiglia. 

Le stime più attendibili riguardanti il secolo precedente rilevano che nel 1800 la popolazione totale della Palestina contasse 250.000 individui, per poi raggiungere quota 500.000 nel 1890. Justin McCarthy, uno dei demografi che lavorano da più anni su questo tema, ha indicato in 411.000 il numero di quanti vivevano in Palestina nel 1860. Tra essi era presente una minoranza ebraica e una vasta maggioranza, circa il 90%, palestinese.

Come descritto nel 1857 da Herman Melville durante un soggiorno in loco (Journal of a Visit to Europe and the Levant, October 11, 1856-May 6, 1857), “tutti coloro che coltivano la terra in Palestina sono arabi [all who cultivate the soil in Palestine are Arabs]”. Melville si riferiva a quella stessa “popolazione rurale” che Noel Temple Moore, console britannico a Gerusalemme dal 1863 al 1890, aveva definito “l’osso e il tendine del paese [the bone and sinew of the country]”.

Almeno fino agli anni Venti del Novecento l’aumento della popolazione palestinese, peraltro riscontrabile anche in altri contesti mediorientali (in Iraq tra il 1867 e il 1905 la popolazione passò da 1 milione e 250mila a 2 milioni e 250mila unità), aveva poco a che vedere con l’immigrazione ebraica. Come notò Justin McCarthy, “la provincia che registrò la maggiore crescita della popolazione ebraica (.035 all’anno), il sangiaccato di Gerusalemme, è stata quella con il più basso tasso di crescita della popolazione musulmana (.009)”.

In una fase successiva, si verificarono diversi casi di movimenti migratori arabi interni alla stessa Palestina e miranti a insediarsi in zone a prevalenza ebraica, ovvero in perimetri che garantivano occasioni di sviluppo più concrete. Nelle parole della Commissione Peel del 1937: “La popolazione araba mostra un’importante crescita a partire dal 1920, ed essa ha avuto una certa correlazione con l’incremento della prosperità [dovuta in buona parte al contributo ebraico] in Palestina”. 

Già nella Palestina mandataria, la tesi secondo cui la crescita della popolazione palestinese fosse per lo più riconducibile a quella che viene definita “immigrazione nascosta” (piuttosto che a un aumento naturale) era considerata priva di fondamento. Il rapporto prodotto al tempo dall’Anglo-American Survey of Palestine presentava in tal senso chiare evidenze: 

Si è talvolta sostenuto che l’alto tasso di crescita naturale araba sia dovuto a una grande immigrazione clandestina dai paesi vicini. Si tratta di una deduzione fallace. Le ricerche rivelano che l’alto tasso di fecondità della donna araba musulmana è rimasto invariato da mezzo secolo. Il basso tasso di crescita naturale araba prima del 1914 fu causato da: a) l’allontanamento di un numero significativo di uomini in età prematrimoniale impegnati nel servizio militare in altre parti dell’Impero Ottomano, molti dei quali mai tornati, o tornati quando anziani; b) la mancanza di un controllo efficace delle malattie endemiche ed epidemiche che in quegli anni portavano ad alti tassi di mortalità.

L’aumento della popolazione palestinese era dunque in larga parte da collegare a una crescita demografica “autoctona”: un aumento che aveva peraltro registrato una contenuta progressione già a partire dalla metà dell’Ottocento, quindi in una fase antecedente tanto alla ha-aliyah ha-rishona (la prima Aliyah) quanto alla prima società di costruzione fondata a Gerusalemme, negli anni Sessanta dell’Ottocento, da Yosef Rivlin.

Tale crescita demografica si accompagnava a una diminuzione media della mortalità, posta ben al di sotto dei 40 anni nelle fasi iniziali del Novecento, indotta, come già evidenziato, soprattutto dalle innovazioni apportate dalla componente ebraica della popolazione. Quest’ultima, al contrario, si moltiplicava in maggioranza grazie all’immigrazione, per lo più incarnata da devoti, spesso perseguitati, provenienti da altri continenti. 

La stragrande maggioranza delle comunità palestinesi locali – proprio come gli ebrei del “vecchio Yishuv” – erano radicati da tempo immemore nella loro terra. Un esempio tra migliaia di altri è riconducibile al muftì Khayr al-Dīn al-Ramlī (1585-1671), influente giurista nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae origine il suo cognome (appunto Ramla). La parabola umana di al-Ramlī conferma tra l’altro che il concetto di Filastīn (Palestina), da lui indicata come bilādunā (“il nostro paese”), fosse molto più di un’idea astratta.

La tomba a Gerusalemme del qadi (giudice) e storico Mujīr al-Dīn (1456–1522), il quale nei suoi scritti fece un uso sistematico (22 citazioni) del termine Filastīn

La questione può essere allargata anche alla piccola percentuale di palestinesi che alcuni studiosi hanno identificato come “recenti immigrati” (nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento venne registrato un flusso migratorio verso l’America meridionale, dove è presente la più ampia comunità palestinese al di fuori del mondo arabo). Si tratta in larga parte di persone che – pur mantenendo saldi i loro peculiari retaggi indissolubilmente legati a quella che da molti secoli era nota per l’appunto alla maggioranza locale come Filastīn – vivevano nel contesto di una ben più ampia regione (la “Grande Siria”). Considerare gli spostamenti interni alla regione come processi migratori tra popolazioni reciprocamente ‘straniere’ era/è un modo semplicistico di leggere una realtà che di semplice non aveva nulla. 

Nelle parole dello storico Adel Manna: “Un palestinese che si trasferiva nel sud del Libano o un palestinese che migrava verso la Palestina – o un siriano, oppure un giordano – […] è parte integrante della cultura della società del Bilad-sl-Sham, o Grande Siria, dove non esistevano confini tra i paesi”.

È opportuno concludere sottolineando che tutte le identità sono frutto di un processo di costruzione. Quella palestinese non fa eccezione. Eppure si tratta di un processo tutt’altro che recente. Già alla fine del X secolo, il geografo al-Muqaddasī scrisse quanto segue: “Ho menzionato loro [i lavoratori di Shiraz] della costruzione in Palestina e ho discusso con loro di questi argomenti. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei egiziano? Ho risposto: No, sono palestinese”. Circa 1.000 anni più tardi, il 3 settembre 1921, un editoriale pubblicato su Falastīn (in stampa dal 1911 al 1948) sottolineò che “Siamo prima di tutto palestinesi e poi arabi”. Questi esempi, tra tanti altri, ci ricordano che la tesi secondo cui il processo di costruzione di una identità palestinese sia riconducibile a una mera “reazione” al Sionismo ignora troppa storia e non può che favorire una comprensione limitata di un tema ben più complesso.

Lorenzo Kamel

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